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Scosse sismiche in Moldavia.
Primo episodio

3 luglio 2023

Macelleria interna agli edifici del mercato di Piața Centrală, Chişinău, Moldavia, febbraio 2019

AGOSTO 2021. TERREMOTO A CHIÅžINÄ‚U

 

La Moldavia ha appena compiuto trent’anni ma dimostra la maturità di un neodiplomato. Anche qui, come in gran parte dei paesi dello spazio post-sovietico, si celebra il trentennale dell’indipendenza dalla Grande Madre. Il clima che trovo, in questa seconda visita avvenuta nel giro di tre anni, è simile a quello che incontrai la prima volta. A ChiÅŸinău poco è cambiato: il viale Ștefan Cel Mare è ancora tempestato da cambi valuta con insegne luminose, banche in ogni angolo, dalla maestosità del parlamento moldavo a forma di libro aperto, dagli hotel abbandonati a ovest e dalla stazione coi mosaici turco-ottomani. Dietro questa c’è ancora lo sterminato bazaar zingaro. Niente è successo. Negli angoli della via principale le venditrici ambulanti siedono dietro cumuli di patate, sottaceti in barattoli, fiori dai colori vari. Una Porsche Carrera supera a tutta velocità una Dacia avvolta nella ruggine. 

 

Reca però le conseguenze di un terremoto. La terra ha tremato senza causare alcun danno urbano, né economico o geologico. Nessuno, in realtà, l’ha minimamente avvertito. Non c’è da sorprendersi: è stato un terremoto politico. L’11 luglio scorso [2021, ndr] le elezioni hanno deciso la nuova guida del paese, Maia Sandu, candidata del partito liberale PAS e filoeuropeista, riuscita a scansare l’opposizione dell’ex leader filorusso Dodon. Che sia il primo passo per allacciare all’Europa questo lembo di terra dimenticato? Prendendo come riferimento gli indici economici e di sviluppo, una risposta affermativa è lontana. I vicini della Transinistria rendono ancora più tortuosa la faccenda. La prima premier donna dell’Est ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti con il 52.8% e rappresenta, specialmente per le nuove generazioni – più istruite, consapevoli della loro marginalità economica-culturale ed escluse dal sogno occidentale – quel cambiamento che si aspettava da anni. L’elettorato che l’ha sostenuta ricalca la perenne divisione culturale ed etnica della Moldavia. Con una formazione accademica d’élite e un’esperienza professionale di spicco, la Sandu, forte del suo trascorso politico, modella la sua figura sull’icona tradizionale del leader umano vicino agli ultimi, consapevole delle strade giuste da percorrere. Premesse che il popolo moldavo ha già sentito e visto, ma una speranza nuova si respira tra le vie di ChiÅŸinău.

Sezione ortofrutticola del mercato di Piața Centrală, Chişinău, Moldavia, febbraio 2019

DISILLUSIONE MOLDAVA

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Percorro le vie del centro con Irina, migrata anni fa in Olanda. Studia all’Erasmus University di Rotterdam ed è in tirocinio al Partenariato Europeo. Parla quattro lingue, come gran parte delle nuove generazioni degli stati post-sovietici. Tra gli anziani della famiglia solo sua nonna non venne deportata in Siberia. La incontrai nei giorni seguenti, nel suo villaggio natale a mezz’ora dalla capitale, da cui non si è mossa per 92 anni. 

«Si è un po’ perso il sentimento europeista della gente comune – mi dice Irina – e questo è dovuto alla classe dirigente corrotta degli ultimi anni. Plahotniuc, esponente del partito democratico filoeuropeista e uomo più potente del paese, ha rubato un miliardo di euro dal sistema bancario nazionale. Il disorientamento ha regnato sovrano. Anche i più vecchi guardano ormai con distacco la Russia, ma anche l’Occidente ha perso credibilità. Il nazionalismo pan-rumeno è ormai morto, l’hanno dimostrato le ultime elezioni. Maia Sandu sembra essere l’unica in grado di cambiare le sorti di questo paese e c’è grande speranza in lei, non è un caso se ha ottenuto un appoggio totale dalle generazioni più giovani. Tuttavia, non penso di tornare in Moldavia in futuro. Qui non c’è possibilità e assumersi responsabilità politiche e sociali è spesso fatica vana».

In diversi mi hanno fornito la stessa prospettiva nei giorni seguenti. Attorno a noi auto costose, ragazze slanciate con addosso capi d’alta moda, ristoranti vuoti, l’interminabile fila davanti al Mc Donald – centro nevralgico della socialità dei giovani locali. «Caduto il comunismo, non c’è più ideologia che tenga. Tutti ormai inseguono il possesso e la ricchezza, ostentandole in maniera esasperata. La nuova religione è la materialità» mi dice a cena. Anche lei, non diversamente dalle classi sociali più povere, vessate da una modernità che in questi contesti sembra escludere anziché unire, ripropone nella sua fisiognomica e nella sua pragmatica linguistica una profonda disillusione che è, senza alcun dubbio, la marca identitaria dei moldavi. Non siamo all’interno di un senso d’inferiorità verso l’occidentale prospero, né in una depressione collettiva, ma nel contesto di una caratteristica esistenziale dalle origini storico-politiche. La Moldavia è una terra disillusa. 

 

Nicola è un ex-insegnante di educazione fisica in pensione, emigrato in Moldavia sette anni fa dopo aver sposato una signora locale. Lo incontro nella periferia sud di ChiÅŸinău, all’ottavo piano di un palazzo sovietico. Appena entrato mi fa sedere nel divano in salotto. La moglie mi porge un caffè e dei biscotti. La tv è sintonizzata su Rai3 e mi accorgo che sta per cominciare la staffetta 4x1000. Dopo l’oro di Jacobs nei 100 metri ci sono grandi aspettative. Glielo faccio notare. Non sembra però interessato e mi espone la sua visione. Per lui, la Sandu rappresenterà l’ennesima delusione per il popolo moldavo. La politica può poco contro la corruzione, elemento base della coscienza moldava. Impossibile separarli da questa, mi dice. 

Dialoghiamo per un’oretta. In tv sfilano le interviste commosse di Tortu e compagni. Hanno compiuto un’impresa storica che occuperà l’attenzione mediatica dei prossimi giorni, ma non c’è spazio per questo a ChiÅŸinău. Nicola non se ne è accorto. La moglie ritorna ironizzando: «non ti sentivo parlare così tanto da molto tempo. Con me ormai parli appena». 

 

La storia di Aminaga Guliyev ha inizio nel 1966, in Azerbaijan, all’epoca provincia dello sconfinato Impero Sovietico. Figlio di genitori operai, fu la strada a formarlo. Quel pezzo di pane che sgranocchiava negli angoli più decrepiti di Baku era spesso il frutto di qualche furticino. Sostava dietro i cassonetti delle strade a lenta percorrenza e, appena avvistava il camion carico di cibo, era pronto a saltarci sopra e a lanciare pacchi, scartoffie, ceste di frutta, carne e pesce secco, sacchi di grano e pagnotte intere ai compagni che lo aspettavano giù nel bordo della strada. Quando andava bene riusciva a portare qualcosa anche ai genitori. Questo durò per qualche anno, finché non lo presero e per punizione la Grande Madre lo mandò a Tiraspol, attuale capitale della Transinistria, regione compresa tra il fiume Nistro e l’Ucraina. Sei mesi di lavori forzati vista la giovane età. Impiegato nel settore edile, fece dentro e fuori dai carceri transinistriani più volte. Tuttavia, mai nulla di grave: un po’ di marjuana venduta agli amici, sigarette e alcolici di contrabbando. Qualche rissa ogni tanto. Così occupato, Tiraspol divenne la sua città adottiva. 

Ora, Aminaga Guliyev siede a fianco a me e gli altri ragazzi nel gazebo dell’ostello. Qualche tatuaggio sbiadito ricorda il suo passato burrascoso. È Ruben ad ospitarlo, proprietario napoletano dell’ospizio, contro il volere della moglie Marcella che non vede l’ora di liberarsi di Aminaga. Fa scappare i turisti, mi disse qualche giorno dopo. In quel momento Aminaga era in attesa di un documento d’identità, si rifugiò in Moldavia in seguito ad ulteriori dissidi con la giustizia transinistriana. A ricordare la sua esistenza era solo un passaporto sovietico sgualcito. 

Dopo essersi seduto tira fuori una bottiglia vuota con un braciere in un’estremità. Lo carica di marjuana e dopo aver tirato ce lo offre. «Attendo solo i documenti e per il resto della mia vita camminerò per tutta l’Europa. Solo lì ci sono persone normali. Ho un mio conoscente in Italia e gli farò visita appena potrò. La mia vita è ormai passata e vivrò così alla rinfusa fino alla mia morte. Non ho più nessuno, ho pochi obblighi, inseguo solo la libertà».

Janika dietro al suo banco di frutta e verdura al mercato di Piața Centrală, Chişinău, Moldavia, febbraio 2019

PERCHE' LA MOLDAVIA?

 

Viaggiare nella povertà per ribadire la propria inconscia superiorità? Desiderio di condividere sfortune e destini d’altri, irreversibili, che non ci appartengono? Volontà di mimetizzarsi – e scomparire – in realtà più autentiche? Perché la Moldavia? 

PiaÈ›a Centrală è un mercato a cielo aperto nascosto dietro gli edifici di Ștefan Cel Mare. Tra il silenzio dei clienti e le urla dei venditori di frutta e verdura si respira quella spontaneità disordinata che la civiltà occidentale sta estirpando con l’educazione, la pervasività tecnologica e il consumo. 

Nella parte ovest del mercato Janika gestisce il suo chiosco di frutta. L’avevo già conosciuta nel viaggio precedente, catturando in una foto la bellezza delle sue rughe e la sua figura retta nel freddo. È ancora là, occupata a trattare coi clienti che chiedono merce al ribasso. Lì le rughe, gli occhi azzurri pieni di consapevolezza e passione. Mancano solo le giacche pesanti. La immagino come la donna che tutti gli uomini attendevano, quando trent’anni fa passava di paese in paese con un carro trainato da asini. 

Le mostro un suo primo piano, risale alla prima visita. Non sono invecchiata così male, mi dice, ed era vero. Due anni dopo, a ChiÅŸinău, non era cambiato niente. Persino gli occhi disillusi di Janika mi guardavano allo stesso modo. 

 

Agosto 2021

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