26/10/2023
Svegliarsi alle cinque di mattina è un’abitudine condivisa dagli abitanti di Nuevo Horizonte, e in fondo adattarsi non è stato così difficile. Sono di grande aiuto i puntualissimi galli che ogni giorno mi fanno saltare giù dal letto, ma anche i versi acuti delle scimmie urlatrici, i cinguettii vari e il tonfo sonoro dei manghi che cadono sul mio tetto in lamiera non sono certo da meno. Oltre ai suoni “naturali”, alle sei in punto i miei vicini mettono in funzione una enorme e antiquata macchina per macinare il mais, il cui frastuono è pari solo al motore di un trattore.
Se alzarsi presto è facile, non lo è per niente, invece, provare a seguire la routine quotidiana di questa piccola comunità nel nord-est del Guatemala. Uno dei suoi membri più anziani passa ogni giorno davanti casa mia, diretto verso i terreni della cooperativa che distano circa venti minuti a piedi da dove vivo. Anche stamattina lo riconosco subito dai capelli lunghi fino alle spalle, neri e folti, la barba e i baffi dello stesso colore con qualche ciuffo argenteo. Si ferma sull’uscio del mio giardino (che più che giardino è quasi una selva) e mi fa un cenno con i suoi occhi scuri e penetranti, invitandomi a seguirlo.
Rony Figueroa a Nuevo Horizonte è un veterano, è sulla sessantina, un fisico asciutto, mani da contadino e due denti finti metallici che brillano ogni volta che sorride. Il suo vero nome in realtà è Eusebio. Come già spiegavo nel diario precedente, qui tutti gli ex guerriglieri hanno nomi diversi, nomi che si sono dati durante il conflitto interno per nascondere la loro vera identità e proteggere la famiglia. Rony il suo nome fittizio lo mostra con orgoglio, l’ha scelto in onore di un suo vecchio amico, ucciso in battaglia dall’esercito del governo.
Orgoglioso è l’aggettivo che più si addice a Rony. Era il leader del Grupo Cinco, la squadra guerrigliera locale delle FAR, le forze armate ribelli che combatterono nella guerra civile scoppiata nel ‘60 e durata fino al ‘96. Tutti lo conoscono e lo rispettano, alcuni lo venerano, altri sembrano averne timore. La cosa certa è che nel villaggio vige una sorta di regola non scritta: mantieni un buon rapporto con Rony e non avrai problemi. È un’enciclopedia di racconti di guerra, tradizioni maya e storie della colonizzazione spagnola. La sua memoria è lucida, precisa nei dettagli. Nato da una famiglia contadina, a 17 anni è entrato in guerra, diventando presto capitano. Le esperienze difficili che ha affrontato lo hanno segnato, rendendolo molto selettivo con le persone. A volte, quando è di buon umore, viene a cercarmi per raccontarmi qualcosa, gli piace avere un pubblico che lo ascolta. E a una assetata di storie come me, la pazienza di sentirlo divagare su quando incontrò Fidel Castro o su come quella volta fu costretto a mangiare tucani pur di sopravvivere nella giungla, certo non manca.
Camminiamo in silenzio in un sentiero sterrato. Intorno a noi i primi raggi del sole fanno capolino tra le enormi foglie dei banani e dei manghi. Dalla foresta che stiamo attraversando si sentono le grida delle scimmie e i richiami dei pappagalli. Respiro l’aria ancora fresca dell’alba e ascolto con attenzione i suoni naturali, cercando di non pensare che, quando tornerò a Roma, verranno sostituiti da sirene, clacson, ambulanze. Ci fermiamo di fronte a un campo selvatico e Rony mi spiega cosa stiamo per fare: “Il nostro lavoro qui è importantissimo, sto seguendo il progetto di riforestazione, voglio che questa zona selvaggia torni a essere viva e piena di alberi. Oggi mi aiuti a piantare questi che vedi allineati. Sono cedri. Io faccio il buco nella terra e tu mi segui piano piano posizionando l’albero.”
E con questo imperativo cominciamo. Io sono molto più lenta di lui, che in mezz'ora ha già fatto una cinquantina di buchi. Stanotte ha piovuto, per cui è più facile lavorare, la terra ancora bagnata e morbida mi scivola facilmente tra le dita, lasciandomi una sensazione fresca e piacevole al tatto. Per scavare il terreno Rony utilizza un lungo palo appuntito, io invece con la massima delicatezza ho il compito di estrarre la pianta dal suo involucro di plastica e posizionarla nel punto segnato. Mentre ricopro con la terra il mio ultimo cedro, stanca e con la mente sgombra, sollevo lo sguardo e cerco Rony. Lo vedo solo grazie alla sua maglietta rosso fuoco. È seduto all’ombra, sotto un mango, e sta sgranocchiando una pannocchia di mais tirata fuori chissà da dove. Con qualche foglia tra i capelli, sudata ma soddisfatta del mio lavoro, lo raggiungo e mi siedo al suo fianco. Da una borsa tira fuori un altro mais e me lo offre sorridendo. Sento che oggi è ben disposto, e ne approfitto per farmi raccontare di com’è nata la cooperativa.
“Alla fine della guerra, nel ’96, sono arrivati gli Accordi di Pace. Si parlava di concentrazione, disarmo, dispersione. Volevano prima unirci tutti quanti in un punto, toglierci le armi e poi lasciarci di nuovo a noi stessi. Ma noi del Grupo Cinco non avevamo nessuna intenzione di tornare a casa. Quale casa poi? Avevamo soltanto noi stessi, i legami che avevamo creato durante la guerriglia, e volevamo continuare a vivere insieme lavorando la terra e combattendo per i nostri diritti. Ci chiamavano i “senza destino”. Ci spedirono per nove mesi in una sorta di albergo temporaneo prima di dirci che avremmo potuto sceglierci una terra dove vivere. Ancora oggi mi mangio le dita per non aver letto attentamente quei maledetti Accordi. C’era una clausola che non avevamo visto, che stabiliva che nessuno di noi aveva diritto a un risarcimento, la terra che avremmo scelto l’avremmo dovuta pagare da zero di tasca nostra. E come, mi chiedevo, se non avevamo nemmeno una maglia per coprirci?
L’unica soluzione era trasformare la nostra lotta, depositando le armi e costruendo una vera comunità basata sui valori di collettività e uguaglianza. Dopo mesi di ricerca, scegliemmo questa finca, si chiamava El Horizonte e ci sarebbe costata tre milioni e mezzo di quetzales. Il Banco Mondiale ci prestò, su pressione di non so chi, 10mila quetzales a testa, con la promessa che glieli avremmo restituiti con gli interessi. Eravamo 126 donne e uomini ex guerriglieri, pronti a tutto per costruire una nuova rivoluzione, il nostro “nuovo orizzonte”. Fu così che cominciammo, abbandonati da tutti e con la sola forza bruta e il coraggio che ci infondevamo a vicenda. Ricevemmo alcuni aiuti dalla Croce Rossa spagnola per la costruzione delle case, di cui si occupò un gruppo di noi. Un altro gruppo strutturò tubi per l’acqua potabile, un terzo organizzò il piano di agricoltura per la sopravvivenza, un quarto quello della riforestazione. Da zero tirammo su un villaggio vero. Per due anni e mezzo lavorammo senza sosta, vivendo in un buco scavato nel terreno, sotto una tenda di nylon nera. Eravamo io, mia moglie Lucero e la mia primogenita Lupe. Così, per due anni resistemmo finché non fu pronta la nostra casa.”
Il sole adesso è alto su di noi, inizia a fare molto caldo e, da quello che ho imparato in questi mesi, più il calore è intenso la mattina, più alta è la probabilità che il pomeriggio ci sia una tempesta tropicale. Rony però continua a raccontare imperterrito. Dal suo cipiglio capisco che vuole finire il suo racconto senza essere interrotto. Nel nominare la moglie lo vedo vulnerabile per la prima volta. Lucero, che faceva parte del gruppo di donne combattenti, è morta di leucemia nel 2021, lasciandolo solo con le due figlie, Lupe e Adelita. Parlando della famiglia mi mostra tutta l’umanità che si nasconde dietro la sua indole dura. Durante quei due anni prima della fondazione di Horizonte, tra le donne guerrigliere ci sono stati nove aborti spontanei, uno proprio di Lucero, un maschietto che all’ottavo mese di gravidanza è deceduto per le condizioni precarie in cui vivevano. Mi chiedo se sia per questo che molti degli ex guerriglieri che vivono qui non hanno più avuto figli o ne hanno avuti molto pochi.
Lucero era una dei sopravvissuti ad un genocidio messo in atto dall’esercito del governo. Bruciarono la sua casa quando aveva 13 anni e la costrinsero ad assistere all’omicidio del padre. Eppure, nonostante la paura e la fame, con tre fratellini a carico, decise di unirsi ai rivoluzionari. “Ci conoscemmo durante la guerriglia, vivevamo nascosti nei boschi. Lei era forte, bella, è sempre stata molto più coraggiosa di me. Entrambi avevamo vissuto cose orribili, ma ci siamo sempre rialzati insieme. L’ultimo giorno in ospedale prima che si addormentasse per sempre, io ero disperato. Ma lei non versò una lacrima, impavida anche di fronte alla morte. Mi guardò e mi disse solo: “De cara al sol Rony, y sonriéndole”. “Con il viso verso il sole Rony, sorridendo”.
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Rony è un narratore nato. Avevo già sperimentato lo stato di assuefazione che generano i suoi racconti, ma dopo averlo ascoltato parlare della sua vita più intima mi sembra quasi di risalire in superficie dopo una lunga immersione. Dopo i primi due anni impegnati nella costruzione del villaggio, finalmente nel ‘98 inaugurarono la Cooperativa, insieme ai progetti di educazione (c’è una scuola popolare non obbligatoria), di piscicoltura e di agricoltura. Ogni cosa funziona in modo collettivo: hanno un calendario in cui si dividono il lavoro da fare, ma sempre in maniera comunitaria. La giunta direttiva è formata da cinque persone, ma per prendere decisioni più importanti si organizzano riunioni con tutta la comunità, in cui ciascuno esprime il proprio parere e a vincere è la maggioranza. Per Rony Nuevo Horizonte è la risposta a chi gli chiedeva “E che succede ora con la vostra battaglia? Dov’è finito lo spirito rivoluzionario?”. “Per me la lotta continua, ma in modo diverso” – mi dice – “Il nostro obiettivo di giustizia rimane. Un gruppo di persone anonime e annichilite da un governo che le ha abbandonate sono riuscite a ricostruire, ripartendo dalla terra. Una terra che non è di chi la possiede, ma di chi la lavora.”
In silenzio afferra il machete e comincia ad affilarlo, mi fa intendere che non vuole proseguire. Guardo il campo che abbiamo appena seminato. La mente che prima era sgombra ora è un turbinio di pensieri ed emozioni. A Nuevo Horizonte ho imparato ad azzerare tutto e ricominciare. Ad abituarmi a non dare niente per scontato, che la luce può andarsene anche per tre giorni, che l’acqua calda è un lusso che solo noi occidentali possiamo permetterci, che sono solo fortunata di essere nata in una parte del mondo piuttosto che in un’altra. Penso a Lucero, vorrei diventare una donna con un briciolo della sua forza. Penso a Rony e al suo amore verso la moglie e verso le figlie, penso a mio padre, a mia madre, a quanto vorrei tornare piccola per non sentire più paura verso il futuro. Penso a mio nonno, sarebbe fiero di vedermi lavorare la terra. Il suo sguardo è in ogni albero che ho appena piantato. A mia nonna, la sua voce e i suoi consigli sono lì mentre lavo a mano i vestiti dentro un catino d’acqua fredda fino a ritrovarmi le dita raggrinzite.
Rony si rialza, è ora di rientrare prima che cominci l’acquazzone. Lo seguo e durante il tragitto, mentre nuvoloni grigio scuro iniziano a coprire il cielo, mi indica parti del campo che già sono state riforestate. Le guarda con orgoglio, sono frutto di più di 25 anni di sforzi. “Sai come si chiamava questo progetto? Verde vida. Sai perché? Il compañero incaricato del lavoro ci aveva detto: “Compagni! Bisogna riforestare questo deserto, il progetto lo chiameremo Verde!”, e noi: “Verde che, compagno?” “Verde, verde vida!”.
Gli anni della guerra civile hanno segnato, chi più chi meno, gli abitanti di Horizonte, generando non poche contraddizioni. La storia di Lucero non è l’unica. Ci sono altri sopravvissuti a stragi compiute dall’esercito; alcuni, come Rony, sono riusciti a ricominciare una vita nuova, altri però hanno sviluppato traumi, molti soffrono di alcolismo. Per quanto Horizonte sia un posto pieno di donne ex guerrigliere, anche qui inevitabilmente c’è un maschilismo difficile da estirpare. Ma non è tutto, nello scontro tra le FAR e l’esercito del governo, durato ben 35 anni, venivano colpiti grandissimi gruppi di civili su cui ricadeva tutto il peso di una guerra che non avevano scelto. Tutt’ora la situazione non è affatto facile. Nel Petén, la regione dove mi trovo, c’è un forte cartello di narcotrafficanti che da anni conquista sempre maggiori posizioni politiche, attraverso boicottaggi e corruzione. Per non parlare dei “maledetti monopoli” come li chiama Rony. Sono poche famiglie, circa una ventina, che in Guatemala da anni si spartiscono le principali imprese: elettricità, petrolio, acqua potabile, alcolici, allevamenti di bestiame e, ovviamente, palma africana, il tema su cui sto lavorando per la mia tesi e che mi ha condotta fin qui.
Questa sera, nella confortevole casetta rossa che il villaggio mi ha messo a disposizione per questi mesi, mi rifugio dalla forte pioggia che durerà tutta la notte. Quando piove, la foresta è più viva che mai. Lo scroscio della tempesta è talmente violento che annulla e sovrasta ogni altro suono. È una forza generatrice, primordiale, mistica. Una forza che i maya prima, e gli abitanti di Horizonte oggi, ringraziano e pregano ogni giorno. Senza pioggia, senza acqua, i cedri che abbiamo piantato non crescerebbero. Prima di addormentarmi cullata da questa musica naturale, il cellulare si illumina. È un messaggio di Rony. Dice solo “Riposa, piccola guerriera.”