top of page

Il conflitto ucraino raccontato dal campo. 
Luca Steinmann: inviato occidentale tra i soldati di Putin

21 luglio 2023

Luca Steinmann, reporter italo-svizzero, arrivò nel Donbass dei separatisti il 18 febbraio 2022, convinto che ci sarebbe rimasto solo una decina di giorni. Tutto cambiò dal 24 febbraio: cominciò l’invasione russa e l’Ucraina si ritrovò al centro del mondo. 

Nel suo libro Il fronte russo, la guerra in Ucraina raccontata dall’inviato tra i soldati di Putin (Rizzoli), Steinmann offre una preziosa testimonianza frutto di un anno di lavoro sul campo. Combinando imparzialità nella descrizione dei fatti e sensibilità verso le persone incontrate, la guerra in Ucraina viene narrata in tutta la sua contraddittorietà. Emerge, infatti, una profonda divergenza tra la tragedia individuale dei civili e l’espressione politica-economica di una guerra che, ancora oggi, è ben lontana dalla fine. 

Partirei con Mariupol, dato che sei stato uno dei primi giornalisti occidentali ad entrare nella città assediata.

La battaglia di Mariupol è stata lunga e brutale. Si è combattuto casa per casa, palazzo per palazzo. I cortili interni dei palazzoni sovietici erano diventati dei fortini naturali. Russi e ucraini si scontravano ovunque, tutto è stato raso al suolo, le vittime sono state tantissime. La terribile particolarità di questa battaglia è stato l’altissimo numero di civili rimasti intrappolati all’interno della città. Mariupol era circondata dai russi senza che ci fossero corridoi umanitari per fare fuggire gli abitanti, gran parte dei quali fu costretta a rintanarsi in cantine o sotterranei mentre per oltre un mese in superficie si combatteva. Man mano che i russi avanzavano quartiere dopo quartiere evacuavano questi disperati.

 

Come funzionavano queste evacuazioni e dove venivano portati i civili?

Quando i soldati russi entravano in un nuovo quartiere scendevano negli scantinati stipati di civili. A questi ultimi i soldati proponevano di salire sui loro mezzi militari e di scappare così dalla città. Non ho mai incontrato nessun civile che mi abbia detto di essere stato forzato ad andarsene ma d’altra parte chi vorrebbe mai rimanere in quell’inferno? Una volta caricati sugli autobus gli sfollati venivano portati in alcuni centri di smistamento posizionati intorno alla città, chiamati centri di filtrazione. Si trattava di tendopoli controllate dai militari dove i fuggiaschi, soprattutto donne, bambini e anziani, ricevevano una prima accoglienza e un aiuto medico. Poi gli adulti venivano interrogati dai militari o dagli operatori filorussi che lì operavano. Se questi stabilivano che il fuggiasco in questione non rappresentava una minaccia gli proponevano due opzioni: la prima era di abbandonare il centro di sua spontanea volontà e di andare a vivere autonomamente nei territori controllati dai russi, dai quali avrebbe eventualmente potuto provare ad andare in quelli ucraini; la seconda era di entrare a fare parte di programmi gestiti da organizzazioni non governative ma vicine al governo russo che prevedevano il trasferimento dei fuggiaschi nella Federazione russa e il conferimento di sussidi e aiuti sociali. 

Io sono stato a lungo in questi centri di filtrazione, soprattutto in quello di Bezimennoe, che allora era l’ultimo villaggio controllato dai russi sulla costa del Mar d’Azov, non lontano da Mariupol. All’inizio c’era solo una tenda, poi decine e decine man mano che arrivava sempre più gente. Vedevo quindi alcuni civili decidere di entrare a fare parte dei programmi di ricollocamento russo e partire così verso la Russia a bordo di autobus messi a disposizione dai soldati. Altri, soprattutto coloro che avevano parenti nei territori controllati dai russi, si staccavano dai soldati e procedevano autonomamente, oppure si facevano venire a prendere dai parenti.

 

In questo contesto l’Ansa e tante altre agenzie di stampa occidentali hanno rilanciato la notizia di queste evacuazioni riprendendo la terminologia utilizzata dal governo ucraino, che parlava di “deportazioni”.

Ci sono delle inchieste giornalistiche e giudiziarie, una di queste da parte della Corte Penale Internazionale, che si occupano della deportazione dei bambini verso la Russia. Io queste non le ho mai viste e sul campo non ho mai sentito nessuno che ne abbia avuto conoscenza o sentore. Naturalmente il fatto che io non le abbia viste non prova che non ci siano state, ma in quanto cronista posso attenermi soltanto a quello che ho visto e verificato. Questo è il limite ma anche la forza di questo mestiere.

 

E delle fosse comuni di Mariupol? Altra notizia rilanciata da agenzie di stampa… se ne è parlato molto qua da noi.

A Mariupol si è combattuto ovunque in maniera sanguinosa. I morti, civili e soldati, aumentavano giorno dopo giorno. I disperati che vivevano ammassati nei sotterranei mentre sopra di loro si combatteva erano costretti a condividere i propri spazi con i cadaveri dei loro vicini e dei loro famigliari. Man mano che la primavera avanzava aumentavano anche le temperature e i problemi igienici connessi. I sopravvissuti si trovavano quindi costretti a sbarazzarsi dei cadaveri il più in fretta possibile. Appena riusciva, la gente saliva in cortile, scavava rapidamente una buca nel terriccio e ci buttava dentro uno o più corpi. Chi aveva tempo ci conficcava sopra una croce o deponeva dei fiori. In ogni parco o aiuola c’era la terra smossa di questi cimiteri improvvisati e spesso diventava impossibile sapere se si stesse camminando solo sulla terra smossa oppure se sotto i propri piedi ci fosse un cumulo di morti.

Con il passare delle settimane i medici dell’esercito russo hanno iniziato a raccogliere i cadaveri abbandonati per le strade oppure a dissotterrare quelli sottoterra e a portarli in un obitorio alle porte della città, nel villaggio di Manhush, dove i sopravvissuti potevano andare a cercare i propri cari per verificare se fossero vivi o morti. I corpi senza vita venivano sepolti uno di fianco all’altro in un ampio spazio aperto nell’attesa che gli scontri finissero e le salme potessero essere portate altrove o recuperate dalle famiglie. Migliaia e migliaia di persone sono state quindi sepolte lì una di fianco all’altra. Sui media queste tombe sono state definite fosse comuni.

 

Hai descritto Donetsk come “un massacro nel silenzio del mondo”. Perché?

Ho assistito alla strage del marzo 2022. Un enorme missile di tipo Tochka-U sparato sulla città dall’esercito ucraino venne intercettato dalla contraerea russa ed esplose in mille schegge che travolsero tutto ciò che c’era sotto di loro, cadendo peraltro a pochi passi da dove alloggiavo. Uccise 22 civili che si trovavano per strada. Fu un fatto spaventoso, visto che avvenne nella fase iniziale della guerra. Era un momento in cui, figli della grande emotività che viveva il mondo occidentale, spesso ci si dimenticava che la guerra è fatta da due fronti.

Donetsk era e resta tutt’oggi semi-circondata dalle posizioni dell’esercito dal 2014. Per 8 anni i bombardamenti hanno interessato soltanto la periferia cittadina esposta ai fronti ucraini. Il centro città era considerato sicuro. La strage del Tochka-U fu un trauma: non solo perché morirono 22 civili, ma perché ricordava agli abitanti che l’intera città era a portata di bombardamento e non era da considerarsi sicura. Da quel momento, soprattutto dalla scorsa estate, sono iniziati a piovere una serie di bombardamenti che hanno causato tante morti civili.

 

Che ripercussione hanno questi attacchi?

Questi attacchi cambiano la percezione della guerra dei cittadini di Donetsk: si sentono vulnerabili, nessuno sembra in grado di proteggerli. Essendo i bombardamenti costanti e spesso su aree civili diventa difficile se non impossibile prevedere dove e quando cadranno i missili e questo genera grande insicurezza in chi vive lì. In molti non riescono a spiegarsi la logica di questi attacchi.

Per un cronista di guerra raccontare questi bombardamenti è doveroso: bisogna distinguere tra le responsabilità di chi ha preso la decisione politica di far degenerare questa guerra e la popolazione civile. È un dovere raccontare che anche la popolazione sotto il controllo dei russi vive sotto le bombe. Se non lo si racconta diventa difficile spiegarsi come mai molte delle persone che vivono nei territori del Donbass in mano ai russi sono diventate così ostili all’esercito ucraino.

 

Che differenze identitarie hai notato nella popolazione ucraina delle aree sotto il controllo russo?

Un assunto di base: essere russofoni non significa essere russofili. L’Ucraina meridionale e orientale è abitata quasi esclusivamente da persone di lingua e cultura russa, ma le opinioni e le percezioni rispetto ai russi e al regime di Putin variano enormemente da zona a zona. Io farei una triplice distinzione.

Nei territori del Donbass che i russi controllano di fatto già dal 2014 l’atmosfera è decisamente russofila. Questo non solo perché chi vive lì è di lingua e cultura russa. Nel 2014, infatti, non tutti sostenevano i separatisti. Di fronte agli avvenimenti di piazza Maidan la popolazione del Donbass era divisa tra chi sosteneva il cambio di colore politico appena avvenuto e chi invece lo rifiutava. Oggi, dopo più di nove anni, circa la metà degli abitanti del Donbass se ne è andato e chi è rimasto esprime nella maggior parte dei casi posizioni filorusse.

Nel sud dell’Ucraina conquistati dai russi a partire dal 24 febbraio 2022, ovvero in parte degli oblast’ di Zaporižžja e Kherson, si respira maggiore diffidenza se non ostilità popolare verso i russi, anche se non da parte di tutti, nonostante anche qui gli abitanti siano di lingua e cultura russa e non abbiano differenze etniche rispetto al Donbass. Ciò me lo spiego soprattutto con il fatto che la gente vuole soprattutto vivere in pace e in questi territori la guerra è arrivata con i russi a partire dal 2022. Insomma, chi porta la guerra viene visto con ostilità.

Una terza area geografica ben distinta sono i territori del Donbass conquistati dai russi dall’inizio dell’”operazione militare speciale”, come la chiamano loro. Mi riferisco soprattutto alle città di Mariupol e Volnovakha nell’oblast’ di Donetsk e a gran parte della regione di Lugansk.

Spesso tendiamo a classificare gli umori e le posizioni politiche delle popolazioni in base a categorie etniche, religiose o culturali. La mia esperienza da reporter mi ha insegnato che, soprattutto in questa guerra ma non solo, contano molto le biografie delle persone, la loro esperienza. Nel Donbass, molte persone raccontano che rischiano la vita da ormai nove anni e identificano nell’esercito ucraino il responsabile; nel sud ucraino, invece, a Kherson e Zaporozje, le bombe hanno iniziato a piovere con l’arrivo dei russi che molti vedono quindi di cattivo occhio.

 

Dal tuo punto di vista, gli armamenti occidentali hanno influito molto sul campo di battaglia?

Sicuramente molto. Ti farò due esempi.

Per raggiungere Mariupol durante l’assedio percorrevo un’autostrada che la collegava a Donetsk. All’epoca era ritenuta piuttosto sicura. Durante l’estate, però, la strada era diventata pericolosissima, nonostante il fronte ucraino non fosse avanzato. Questo perché gli ucraini avevano iniziato a maneggiare missili a lunga gittata che prima non utilizzavano.

Un altro punto importante è stato l’utilizzo dei droni e della tecnologia militare in mano all’esercito ucraino, che è molto superiore rispetto a quella disponibile alla massa dei soldati russi. L’esercito russo è molto grande, molto variegato, anche motivato, ma non sempre equipaggiato al meglio. Spesso i soldati utilizzano armi vecchie, alcune risalenti alla Seconda guerra mondiale, e carri armati già usati nella guerra in Afghanistan negli anni ’80.

C’è una chiara discrepanza negli equipaggiamenti. Indicativa è la dichiarazione di Prigozhin di qualche giorno fa. A suo avviso l’esercito ucraino è uno dei più forti del mondo: oltre ad essere motivato, è capace di maneggiare sia gli armamenti sovietici, che quelli messi a disposizione dai paesi Nato.

 

Nel tuo libro offri un’ampia panoramica dell’esercito russo. Da chi è composto?

La società russa è variegata, composta da tanti gruppi etnici e confessionali, da un popolo molto eterogeneo e di conseguenza esprime anche un esercito molto eterogeneo. Sul fronte russo combattono diversi eserciti tutti alleati ma che godono di un buon margine di autonomia d’azione e coordinarli non è sempre facile. Alcuni leader militari che controllano alcuni di questi eserciti, come il già citato Prigozhin e il leader dei ceceni Ramzan Kadyrov hanno criticato apertamente i vertici del ministero della difesa di Mosca accusandolo proprio di problemi di coordinamento. [L’intervista risale a fine maggio 2023, prima del tentato golpe di Prigozhin, Ndr].

Dobbiamo tenere a mente un aspetto importante. L’operazione militare speciale, come la chiamano in Russia, sta determinando un riequilibrio degli equilibri di politica interna nella Federazione Russa. Questa dinamica si ritrova nella storia della mentalità russa – chi vince una guerra può rivendicare dei crediti politici fortissimi. Questo è indelebile. Prendiamo Stalin. Ha commesso crimini spaventosi contro la popolazione e la Russia stessa: però ha vinto la Grande guerra patriottica e sconfitto i nazisti. Quel tipo di credito politico non può toglierglielo nessuno ed è anche per questo che la sua figura in Russia non è stata mai bandita.

Quindi, chi riesce ad avere più successi sul campo di battaglia otterrà maggiori crediti politici.

Come la guerra anche la propaganda è pensata e rivolta all’interno della Russia. A noi nostri occhi sembrerebbe propaganda antirussa proprio perché non ne siamo noi i destinatari. A mio avviso è una strategia fallimentare. La Russia sul piano propagandistico ne è già uscita sicuramente sconfitta.

 

Come si può sviluppare il conflitto dopo la recentissima conquista di Bakhmut?

Domanda spinosa. Sono pronto a ricredermi qualora venissi smentito.

Vedo eserciti stanchi su entrambi i fronti. I russi fanno fatica ad avanzare, si aspettavano di combattere per due settimane, ma la guerra procede da più di un anno. Gli ucraini sono provati perché sono di meno a livello numerico.

Le avanzate terrestri da parte ucraina saranno molto difficili. I russi hanno costruito linee di difesa che vanno avanti chilometri e chilometri. Per superarle con una grande controffensiva, all’Ucraina servirebbero migliaia di uomini. E migliaia di vittime. Prima che i combattenti ucraini siano addestrati per usare i nuovi armamenti passerà del tempo.

Quanto ho detto vale anche per la Russia. Sono motivati, ma stanchi e spesso non ben equipaggiati.

Prevedo una fase di stallo, di circoscrizione delle aree di combattimento. Il conflitto su scala più ampia potrà riscoppiare in un secondo momento. Nei libri di storia, magari, si parlerà di Prima guerra d’Ucraina, poi di una seconda.

Tutto cambierebbe, ovviamente, nel caso arrivasse un nuovo elemento dirompente: un altro esercito che entra in guerra.

Una sicurezza è che la pace e il negoziato sono totalmente impossibili. Non c’è mediatore. Putin è diventato un ricercato per la Corte penale internazionale. Aldilà di cosa si pensi di questo organismo, si tratta di un messaggio politico: non ci si può sedere e stringergli la mano. La pace è impossibile.

 

Stai pianificando di tornare al fronte?

Vediamo cosa succede. Ma su due piedi no. Ci sono stato molto nell’ultimo anno e penso che per un reporter di guerra sia un bene prendersi una pausa. Non tanto per l’aspetto psicologico, più per il piano empatico. Stando al fronte si sviluppano rapporti d’amicizia particolari. Si rischia di varcare la linea di demarcazione tra l’empatia verso una persona e il condividere la causa per cui lotta. Penso di non essere mai andato vicino a questo, ma potrei sbagliarmi. Per non sapere né leggere né scrivere, mi prendo un po’ di distacco e guardo la guerra da fuori.

bottom of page