07/10/2023. Vulcani che eruttano
In un giorno di ottobre, mese che con le rivoluzioni ha un buon rapporto, mi sposto in autostop da un paesino all’altro del Guatemala per raggiungere Santa Elena, vicino a Nuevo Horizonte, il villaggio dove abito in questi mesi. La ragione del mio viaggio è una grande manifestazione che si sta svolgendo proprio ora davanti ad un centro commerciale. Sono curiosa di capire cosa sta succedendo. Mi sento nervosa e irrequieta, per cui cerco distrazione guardando fuori dal finestrino: il camion dei miei autisti improvvisati corre sulla strada, avvolta da una fitta vegetazione interrotta solo da alcuni benzinai. Poi guardo alla mia sinistra e due occhi vispi ricambiano il mio sguardo; un volto piccolo, pulito, incorniciato da capelli lunghi e castani, mi lancia un sorriso complice.
La mia compagna di viaggio si chiama Ana Laura, è un’ attivista nicaraguense che da ventisei anni vive e lavora in Guatemala. “Il Paese ha visto molte manifestazioni nel corso degli anni, ma una così grande non si vedeva dai tempi della guerra” mi spiega dopo che ha ottenuto la mia attenzione. La guerra di cui parla è quella civile che ha sconvolto il paese fino al 1996 e che ha lasciato ferite ancora aperte. Ci siamo conosciute per una coincidenza: lei aveva bisogno di un alloggio e, dato che io avevo a disposizione una stanza, è venuta a vivere con me. Ha 43 anni ed è piena di energie, capace di intrattenermi per ore raccontandomi spezzoni della sua vita incredibile: dall'allevamento di alligatori, alle minacce di morte ricevute da un colosso aziendale dell'energia elettrica.
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Anche prima di uscire era agitata ed euforica, si muoveva in giro per casa spostando oggetti e inciampando nei suoi pantaloni verdi larghi e ingombranti. Non mi capacito che, pur essendo magrissima e piccolina, si rifugi dentro questi abiti XL, eppure, come una volta mi ha detto: “Meglio la comodità che l’estetica”. Nella frenetica ricerca dei suoi occhiali (che perde costantemente), mi spiegava che in Guatemala i problemi politici sono all’ordine del giorno, però è forse la prima volta, dopo anni, che “il popolo intero si sta svegliando e sta lottando”. Effettivamente, la sua agitazione è condivisa anche da altri: stamattina due dei miei vicini di casa mi hanno raccomandato di fare scorte di cibo, specificando di comportarmi “come nel periodo della pandemia”. Solo che in questo caso non ci si serra dentro casa, anzi. Ana mi ha trasmesso ormai la sua iperattività e mi ha convinto ad andare con lei dove, come abbiamo scoperto da un gruppo Telegram, si stava montando un sit-in pacifico.
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Ed eccoci in viaggio sotto un sole intenso; con Ana il tragitto non può certo essere silenzioso: mi racconta che da sei giorni il Guatemala è nel caos completo. Sono sei giorni che il terzo paese più grande del Centro America è scosso da proteste, blocchi completi delle strade, marce, persone di tutto il territorio accampate nelle principali autostrade e che impediscono i trasporti e il commercio. Più passano i giorni, più le proteste e i sit-in si moltiplicano come tanti piccoli vulcani in eruzione.
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I protestanti chiedono le dimissioni della procuratrice generale Consuelo Porras, accusata di aver pianificato un colpo di stato per impedire l'insediamento del presidente eletto Bernardo Arévalo de León. Le elezioni presidenziali si sono tenute una prima volta il 25 luglio di quest’anno, in cui Arevalo, del Movimiento Semilla, progressista, ha ottenuto un pareggio con l’antagonista Sandra Torres, del partito di centro UNE (Unidad Nacional de la Esperanza), uno dei più grandi partiti del Guatemala. Al secondo ballottaggio, il 20 agosto, Arevalo ha vinto le elezioni con il 58% dei voti.
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Si presuppone, quindi, che a gennaio 2024 il vincitore Arevalo succederà al presidente uscente Alejandro Giammattei. Niente più che un normale cambio di governo, come lo si potrebbe vedere dall’esterno. Eppure, negli ultimi mesi, Porras, insieme a Rafael Curruchiche, capo della Procura speciale contro l'impunità (FECI), e al giudice Fredy Orellana, ha condotto diverse azioni legali contro Arévalo e il suo gruppo politico, accusandolo di manovre illegali all’interno del Movimento e di aver dunque boicottato le elezioni stesse.
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“Stanno cercando in tutti i modi di non far salire Arevalo alla presidenza” - mi dice Ana Laura; “hanno paura perché con questo cambio di governo cadranno gli accordi già stabiliti con le grandi imprese milionarie del Paese. È un gioco di potere, Sandra Torres era la benvoluta dall’oligarchia, vale a dire le poche famiglie ricche che governano dietro le quinte, mentre Arevalo è quello scomodo, che potrebbe iniziare a lottare contro la corruzione di questo paese”.
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Arrivate al sit-in, troviamo una situazione tranquilla, di riposo. Ci sono 38 gradi e stare ore sull’asfalto, a queste temperature, non è facile. Io e Ana approfittiamo per fare delle interviste e percepiamo subito che l’atmosfera, anche se pacifica, è in fibrillazione: si respira euforia. Io parlo soprattutto con gruppi di studenti, quasi tutti dell’Universidad de San Carlos, l’unica università pubblica del Guatemala. Sono tutti felici di rispondere alle mie domande, di farsi fotografare e filmare. Una studentessa di diritto, vestita di azzurro e bianco, i colori del paese, afferma con fierezza: “Siamo qui perché lo dobbiamo al popolo guatemalteco, è solo grazie a loro se abbiamo borse di studio e possiamo studiare nell’Università pubblica pagando solo 190 quetzales all’anno. Se la democrazia cede adesso, ne subiranno le conseguenze anche le prossime generazioni.” Altri studenti mi ripetono di essere pronti a rimanere tutta la notte, se necessario.
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Dopo un’ora, un pick up rosso si posiziona al centro e improvvisamente la strada si riempie di gente. Non più solo studenti, ma persone comuni, lavoratori e commercianti. Avvisto un paio di ragazzi con la divisa del Mc Donald e di Pizza Hut, le due catene di fast food che si trovano proprio qui dietro al sit-it; forse hanno lasciato il lavoro, non appena hanno visto la manifestazione in corso. Ai due lati della strada, una fila di tuc tuc disposta in modo da bloccare gli accessi; in mezzo, la folla festante inizia a preparare una piñata a cui viene attaccato il volto di Consuelo Porras. A vincere il gioco è una ragazzina bendata che riesce a distruggere l’oggetto con un bastone, fra applausi e risate.
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Nel frattempo, il microfono passa tra varie persone. In mezzo a tanti discorsi tutti uguali,, si distingue una voce pacata, sincera, decisa. È quella di Lima, un ex guerrillero ora commerciante di un piccolo negozio di alimentari. È venuto con le due figlie. Porta cibo e acqua ai manifestanti che questa notte rimarranno accampati a bloccare la strada. Se dovessi attribuirgli un colore sarebbe sicuramente il beige chiaro: porta una camicia e un pantalone di lino di quel colore, ha capelli grigio chiari, occhi luminosi. Tutti lo rispettano: “Parlo ai poliziotti, ma anche ai manifestanti; non usate le armi perché siamo fratelli. Fate come nel ‘44 o nel ‘60, quando l’esercito lottò a fianco del popolo. Non vogliamo vivere un nuovo conflitto interno. Per evitarlo bisogna continuare a protestare”.
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Lima si ferma a parlare con noi, ci vuole dare un passaggio fino a casa. Chiacchierando come se fossimo amici da tanto tempo, scopro che in realtà il suo vero nome è Faustin; Lima è il nome che si è dato, o gli hanno dato, durante la guerra civile, per nascondere la sua vera identità. Ha combattuto fino al 1996 e sa benissimo che l’equilibrio del suo paese, che dalla firma degli accordi di pace si regge su una repubblica democratica fittizia, è precario. È strano pensare che qui, fino a nemmeno 30 anni fa, c’era una guerra, e che la maggior parte delle persone che conosco, ha combattuto e, chissà, forse anche ucciso.
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Gli chiedo se non ha paura per la sua attività, dato che con i blocchi delle strade i camion che trasportano le merci al momento sono fermi. Mi risponde che sì, ovvio; si rende conto che le conseguenze potrebbero essere pesanti per lui e per la famiglia, ma la sua ex natura di combattente lo ha abituato a situazioni ben peggiori. E come mi ripetono sia lui che Ana Laura, in una sorta di mantra condiviso, adesso che il vulcano più grande ha eruttato, hay que aguantar, bisogna resistere.
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08/10/2023. A ritmo di marimba
Stamattina, io e Ana scopriamo che c’è un’altra manifestazione ancora più vicina a dove viviamo. Decidiamo di andare: siamo entrambe d’accordo che chiudersi in casa non ha molto senso. Il paesino si chiama Santa Ana e per arrivarci questa volta non facciamo autostop. Una signora della comunità ci presta la sua jeep e faccio l’esperienza di guidare nei larghi rettilinei del Guatemala, circondati solo da vegetazione. Finalmente, avvistiamo il blocco stradale: una cinquantina di persone che interrompono il verde intenso del paesaggio.
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Lì conosciamo subito il gruppo di donne che gestisce la protesta e che fa parte di un collettivo femminista che si chiama Ixqik. Lavorano insieme soprattutto su temi come la violenza sulle donne e il sostegno alle giovani che rimangono incinta molto presto (qui, nelle zone rurali, è comune vedere anche ragazzine di 12 e 13 anni già con figli; nel mio villaggio ci sono madri bambine, dal viso duro, costrette dal loro stesso corpo a maturare prima del tempo).
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Non è difficile individuare la leader del collettivo: si chiama Iliana Tzin, è bassina, ma robusta, vestita di rosa con un cappello bianco. Ha in mano un microfono e non ha paura di usarlo per gridare, incitare, cantare. Fa di tutto per incoraggiare le donne a restare lì sotto 40 gradi. Tutti eseguono i suoi comandi istantaneamente. Iliana mi chiede di dove sono e mi guadagno subito un “Vengono ad appoggiarci anche dall’Italia!!” urlato al microfono.
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La situazione oggi è ben diversa: nessuno parla, oggi si canta, si balla, si mangia e ci si diverte anche insieme ai sei poliziotti che arrivano ad un certo punto a controllare che la protesta sia pacifica. Iliana offre tortillas, la gente cucina carne a lato della strada e arrivano anche dei compagni a montare due gazebi. Arrivano poi un gruppo di musicisti, suonatori di marimba, lo strumento tipico del Guatemala. L’atmosfera si fa ancora più caotica e festosa.
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C’è qualcosa però che non mi convince, soprattutto perché ormai conosco abbastanza bene Ana e la vedo agitata. Guarda preoccupata l’enorme fila di camion e di macchine che si sta creando da stamattina; tutti quelli che non riescono a passare, a causa del nostro blocco. Alcuni trasportano merci, altri frutta e verdura, altri devono recarsi a lavoro. Iliana e i suoi non fanno passare nessuno, eccetto le emergenze come ambulanze e feriti gravi: “Se facciamo passare anche solo uno di loro, vorranno passare anche gli altri. O tutti o nessuno, non abbiamo scelta”. Ana è d’accordo, io semplicemente non so cosa pensare. Capisco la necessità di avere una posizione ferma, ma quando due infermieri chiedono di poter passare per andare al lavoro, gli viene proibito il passo. Rimango sconcertata. Sono 7 giorni che le persone non possono andare a lavorare. Finora non hanno protestato, ma chi dice che a lungo andare saranno sempre così pacifiche?
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09/10/23. Incertezze
Oggi le manifestazioni in tutto il paese sono diventate 125. Stamattina io e Ana approfittiamo per andare a fare una spesa; non sia mai che Ana rimanga ferma e purtroppo ha contagiato anche me.
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Qui nel villaggio c’è un piccolo negozio di alimentari, stanno finendo le scorte di frutta e verdura, perché stamattina il camion che è venuto a fare le consegne ha triplicato i prezzi. I proprietari del negozio non possono comprare nulla. Sandra, che amministra questo alimentari, ci dice: “Hanno approfittato dei blocchi per alzare i prezzi. Questo non ha niente a che vedere con le proteste, cercano solo di trarre vantaggio dalla situazione confusa in cui siamo”.
A casa Ana sente la mia preoccupazione, mi tranquillizza, lo fa in un modo tutto suo, un po’ “hippie”, mentre taglia un avocado con un gesto deciso e me ne porge una metà: “Qui a Nuevo Horizonte di fame non si muore. Anche nei momenti più difficili si torna alla terra. E qui ne abbiamo in abbondanza, la gente se ne prende cura, non la disperde, non la vende a grandi imprese”.
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Però, quando più tardi la sento parlare con il figlio Santiago al telefono, percepisco ansia nel suo tono di voce, mentre gli consiglia di non uscire, di stare attento, di chiamarla spesso. La osservo camminare su e giù per casa con il cellulare in mano, mentre si accarezza un tatuaggio, un disegno di un battito cardiaco irregolare che circonda il braccio sinistro. Giorni fa mi ha raccontato che suo figlio ebbe un grave incidente in macchina; quello era il suo battito, se l’è tatuato per ricordarsi la paura provata quel giorno, la paura di poterlo perdere.
Forse stiamo davvero vivendo un periodo storico molto particolare, o come la chiama Ana, “una piccola revolución”. Eppure, egoisticamente, mi ritrovo a sperare che tutto questo finisca presto, per non dover vivere nella costante incertezza del domani.
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