Caszely ha detto no
22 febbraio 2023
I militari di Pinochet presidiano lo stadio Nazionale dopo il Colpo di Stato del 1973 (fonte: Memorie Mondiali)
Capelli bianchi e baffi da tipico sceriffo di origine messicana. Nelle mani, mentre sorride alla fotocamera, la racchetta da padel e la pallina: settantadue anni, un fisico asciutto e la voglia di tenersi in forma.
Si chiama Carlos Humberto Caszely e cinquant’anni fa, a sua insaputa, ha compiuto un gesto passato alla Storia, quella con la S maiuscola. Rifiutando di stringere la mano all’allora presidente cileno, Augusto Pinochet, ha sfidato una delle dittature più cruente e sanguinarie del Sudamerica.
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Dalla crisi del capitalismo alla dittatura
Inizio degli anni Settanta. L’economia statunitense risente del conflitto in Vietnam e Richard Nixon pone fine alla convertibilità del dollaro in oro. Nulla impedisce al Presidente americano di attuare il suo piano sul fronte cileno, che già ribolliva di interesse per l’esportazione del modello capitalistico nel Continente.
L’11 settembre 1973 si scatena un autentico terremoto per le strade di Santiago del Cile. Il rumore dei cingolati che avanzano spediti verso il Palazzo della Moneda, bombardato ripetutamente dai colpi di cannone che si sentono a centinaia di metri di distanza, annuncia che è giunto il momento di sbarazzarsi del presidente democraticamente eletto, per instaurare un uomo voluto dai servizi segreti americani. L’uomo che viene portato fuori, coperto da un elmetto militare, indossa occhiali da vista dalla montatura scura: Salvador Allende. Eletto dal popolo solo tre anni prima, il Presidente cileno muore sotto i colpi di una superpotenza senza scrupoli, privando l’intero Paese dei propri diritti fondamentali.
Anni dopo, la figlia Isabel tenterà di rendere viva la memoria del padre e quella di una sanguinaria dittatura che lo ha succeduto: il suo capolavoro è La casa degli spiriti.
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La Nazionale cilena degli anni’70 e il grande rifiuto
Palacio de la Moneda, 21 novembre 1973: la Nazionale di calcio cilena viene ricevuta dal presidente Pinochet. assieme alla giunta militare, nel palazzo presidenziale. Quale modo migliore per mostrare la propagandistica bontà del regime dinnanzi agli occhi del mondo, se non attraverso il calcio? Era già accaduto nella Germania hitleriana alle Olimpiadi del 1936 e in Italia tra il 1934 e il 1938, quando la nazionale italiana di calcio vinse due mondiali consecutivi, all’ombra di un condizionamento fascista mai del tutto chiarito.
Per il regime è un’occasione d’oro da non buttare via: il Presidente passa in rassegna tutti i giocatori, stringendone le mani, mentre quelli abbozzano sorrisi forzati, quasi a voler nascondere il disagio e la mestizia per la tragedia che si è da poco consumata sul popolo cileno.
Caszely, però, è meno ipocrita degli altri. Ha ventitré anni e si è appena trasferito al Levante, in Spagna, dopo gli anni passati al Colo-Colo, la squadra principale di Santiago. I capelli corvini e ricci incastonano uno sguardo austero e torvo, quasi a voler sfidare quell’uomo che gli tende maliziosamente la mano, in attesa di essere ricambiato. È soprannominato El dueno del area chica, il padrone dell’area piccola, o anche el rey del metro cuadrado, il re del metro quadrato, per la sua abilità di segnare all’interno dell’area piccola.
Il cognome tradisce origini ungheresi da parte del padre, emigrato dal paese magiaro in Sudamerica. È il giocatore più rappresentativo della Nazionale che, quel giorno, si dovrà giocare contro l’URSS lo spareggio valido per andare al Mondiale che si disputerà l’anno successivo nella Germania Ovest. O meglio, avrebbe dovuto. Poche ore prima del match, infatti, arriva il clamoroso comunicato da parte della nazionale sovietica, per bocca dello stesso presidente Breznev, dove viene annunciato il forfait alla partita a causa delle mancate situazioni di sicurezza nel Paese. Si è sparsa la voce, infatti, che lo stadio sia diventato la caserma degli interrogatori farsa e delle sparizioni dei prigionieri politici, che però il regime smentisce in maniera categorica.
“Noi siamo buoni, non abbiamo alcun prigioniero politico” dichiara apertamente il generale Pinochet. Indirettamente, la FIFA dà ragione al presidente, ammonendo la nazionale sovietica di questo comportamento. In ogni caso, la partita si gioca. Ma quel gesto, così piccolo e allo stesso tempo potente, porterà Caszely all’ingresso nella Storia con la S maiuscola.
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Mondiale 1974: La partita farsa contro l’URSS
Un silenzio attonito e assordante di dodicimila persone accerchia l’aria già pesante di quel pomeriggio di novembre. In campo ci sono undici giocatori in maglia rossa e calzoncini blu, pronti a sfidare un campo completamente libero, da percorrere avanti e indietro per novanta minuti. Una scena da campetto sotto casa, dove i bambini sperano di giocare per ore, senza risultato e senza i bulli del quartiere a rovinargli la festa.
Il bullo che sta importunando il Cile, però, è molto più temibile. E così, quel fiabesco campo da calcio diventa all’improvviso una coltre di sabbie mobili, che i giocatori corrono al piccolo trotto per non affondare ancora di più nella disperazione, costretti a giocare una partita inesistente.
I giocatori si sentono smarriti, consapevoli che quel match servirà solo per aizzare la stampa cilena, saldamente nelle mani del regimeCaszely offre al capitano, Francisco Valdes, la rete del fantomatico quanto grottesco 1-0, che poi verrà raddoppiato dallo stesso attaccante cileno, paonazzo in viso per la vergogna per aver contribuito, seppur involontariamente, a quella farsa.
Il match finisce 2-0, con i tifosi che accolgono i giocatori mesti e imbarazzati in un boato di urla per la qualificazione. Ma c’è la consapevolezza, soprattutto in Caszely, che l’incontro sia andato oltre il calcio e ben oltre l’idea di libertà fanciullesca che provano i bambini su un campo di calcio. Quell’incontro diventa la rappresentazione calcistica del Sisifo descritto da Camus nel saggio Il mito di Sisifo. Egli, punito da Zeus per la sua disobbedienza, deve trascinare quotidianamente il masso fino alla cima, poiché questo cadrà sempre a valle. Viene usato questo episodio dallo scrittore francese per esprimere l’assurdità della vita che ci porta ad affrontare azioni quotidiane per poter sopravvivere.
Caszely, punito per la sua disobbedienza a Pinochet, deve sottostare a questa routine di partite per conto di un essere supremo che si è creduto tale solo per diritto divino e per poter sopravvivere sia come calciatore, ma anche come uomo. Pinochet, difatti, è come uno Scar ante litteram che, buttando giù dalla rupe il fratello Mufasa, ha buttato giù anche i cileni e la democrazia, che ora si appellano al calcio per risollevarsi, pur consapevoli che sarà solo una squallida visione di facciata in favore del regime.
Carlos Humberto Caszely,72 anni, si mostra sorridente davanti alla fotocamera mentre gioca a padel (fonte: profilo ufficiale Instagram dell'ex calciatore).
I Momios e Caszely
Caszely è un calciatore, ma anche un momio. Letteralmente “mummia”, è un termine usato per definire quei cittadini imborghesiti e che rappresentano la ricchezza, in contrasto con i rotos, i plebei. A modo suo, anche Caszely è un momio. Ricco per via delle sue virtù da calciatore, che si cala anche a rappresentare la parte dei rotos, vocabolo comune che racchiude la classe più povera, quasi a voler ghettizzare le due classi sociali di Santiago: i ricchi e i poveri, quelli che contano nella società cilena e quelli che sono ai margini, spesso sporchi e anche cattivi.
Poveri come lo sono gli operai di una fabbrica di Santiago, che hanno votato Allende, lo stesso Presidente che anche Caszely ha sostenuto e dei quali, pur venendo dai momios, è portavoce. E lo è perché lui stesso è nato roto. Povero, di famiglia ebreo- ungherese, su di lui sembra pendere sin dal bambino la spada di Damocle del dover compiere una scelta: o stare dalla parte dei ricchi o quella dei poveri. Lui diventa parte della prima, ma non per scelta. Ci diventa perché i suoi piedi e la sua rapacità da centravanti lo rendono uno dei migliori calciatori cileni della sua generazione. Ma lui, dentro, resta figlio di quei rotos che abitano nei peggiori e più malfamati quartieri di Santiago, in capanne che faticano ad assomigliare a delle case di mattoni vere e proprie. La sua figura è così carismatica ed influente da risultare decisiva nelle votazioni per il referendum del 1988, nel quale si schiererà per il no.
Lo fa sia per quella gente che ha tradito partecipando ad un Mondiale mai voluto, per conto di un regime che lui stesso non ha voluto. Il pugno rifilato al massaggiatore della nazionale cilena, fiero sostenitore di Pinochet, ne è la riprova. Soprattutto, vuole scacciare il pensiero di quel gol segnato in una partita inesistente, incredibilmente rimasta negli attuali archivi elettronici della FIFA e stipata chissà in quale computer, ma finita nel dimenticatoio dei pensieri umani, salvo per qualche anziano che ancora oggi ricorda le sue gesta.
Caszely è la rappresentazione contraddittoria delle due facce del Cile, ma allo stesso tempo così funzionale al quadro populista che si aggira sul Paese e sui cileni: sia il populismo di facciata, inteso come richiamo strumentale del popolo. Freud definisce queste dinamiche come un insieme necessario per tenere unita la Nazione e il suo popolo, talvolta arrivando alla violenza fisica verso quello che viene definito il “nemico”. Il calcio, in un certo senso, racchiude questa massima freudiana al suo interno. Tuttavia, può essere anche una becera rappresentazione qualunquista delle peggiori bettole di Santiago e di altre capitali, visto l’enorme potere mediatico che esercita sulle menti umane tanto in Cile quanto nel resto dei paesi latinoamericani.
Nel 1985, Caszely ha opposto la sua completa ribellione. L’oramai ex calciatore della Nazionale cilena, sul finire della carriera, si presenta al Palacio de la Moneda. Ha una cravatta rossa e veste in maniche di camicia. Saluta freddamente il Presidente dinnanzi a lui che, osservando sprezzante la sua cravatta, gli chiede:
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“Usted se pone siempre la corbata roja?”
“Sì, siempre. Nunca la retiro, y la pongo siempre por la parte del corazon”.
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“Yo vos la cortaria”.
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Il presidente mostra il suo solito sguardo glaciale dinnanzi ad una vecchia gloria nazionale, sfruttato a piacimento del regime come esaltazione della massima espressione del calcio per tenere a bada un popolo sottomesso e stremato. La rivincita di Caszely, però, arriva tre anni dopo. Al referendum, l’oramai ex calciatore si schiera per il no:
“Per questo il mio voto è No. Perché la sua allegria è la mia allegria. Perché i suoi sentimenti sono i miei sentimenti. Perché il giorno di domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere. Perché questa bella signora è mia madre”. Indicando la madre, Caszely parla per tutti i figli e per tutte le madri private dei propri affetti, fatti sparire e vagare come fantasmi nelle menti della popolazione. Da quel giorno, le cose per il Cile cambieranno per sempre e in meglio. Grazie a Caszely e al suo popolo, che hanno saputo dire di no.